Eccomi qua. Nel cuore della mia ultima notte a Berlino a scrivere il mio ultimo post. Sì, l’ultimo di questo blog. Il sarracino torna in Italia per un po’. E chiuderà per ora questi fogli elettronici. E chissà se un giorno queste mie riflessioni verranno notate. Chissà se apprezzate, finiranno in una raccolta di scritti o meglio ancora in un libro. Chissà se invece verranno via con me.
Ho sempre amato leggere. Soprattutto i saggi. E mi sono sempre trovato a chiedermi “e se lo scrivessi io un libro”? Potrei farlo. Ma poi, chi lo leggerebbe? A scrivere un libro potrebbe farlo chiunque. Addirittura fanno scrivere libri a personaggi che non dovrebbero per nulla comparire nella società, protagonisti di orrendi misfatti e di episodi di cronaca terribile. Lo so, trovate o idee di marketing, non li scrivono nemmeno loro ma c’è gente che li compra. È a tal punto infima la nostra concezione della vita? A tal punto è scesa in basso la nostra società? “Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica” diceva Gesualdo Bufalino. Un Gesualdo Bufalino di cui ho conosciuto l’esistenza qualche anno fa, nella presentazione a Pomigliano d’Arco di un lavoro di Franco Battiato. Ci andavo come inviato per la testata ilnolano.it. Ne ho scoperto l’esistenza molto tardi. Ho letto il suo “Diceria dell’untore” e sono rimasto affascinato dal suo stile ricercato. Ho atteso anche nel conoscerlo. Così come ha atteso questo autore per esplodere. Si è arrivati tardi.
Alle 12.20 parte il mio aereo per Napoli. Spero di non arrivare tardi questa volta, trattenuto troppo a lungo dalla mano forte di una città che non vuole lasciarmi. E che non voglio lasciare. Ma devo. Dopo quattro mesi ritorno tra i miei affetti. Quelli vecchi, autentici, atavici. Quelli vitali. Ne lascio degli altri qui a Berlino che porterei volentieri via con me.
Ricordo con un sorriso il giorno in cui sono partito per la Germania con i Sette samurai di Akira Kurosawa, i Sette fratelli/corvi dei Fratelli Grimm, le sette anime di Will Smith, i sette specchi Esseni, i sette nani, i Magnifici Sette S.E.P., acronimo per il napoletano “Simm e pegg” (Siamo i peggiori). Che cosa significa raccontare un’avventura? Cercare di trascrivere su di un foglio bianco le peripezie di sette amici in un camper, tra le emozioni condivise di risate, birre e tanta complicità. I miei compagni di viaggio? Vittorio, Carlo, Sergio, Gianluca, Giuseppe Jeps4Friends ribattezzato “Geppino per gli amici” e Ivan. Una compagnia strana, molto strana. Ricordo ancora la prima sosta quando qualcuno bruciò i fusibili delle luci interne facendo fare un piccolo cortocircuito tra l’accendisigari ed il navigatore. Chi fu? Ovvio, colpa mia. Il solito imbranato. La solita sbadataggine che viene sempre via con me.
La terra tedesca offre il massimo della sua vivacità nell’Oktober Fest? Ed ecco recepita l’offerta: il Theresenwiese offre spettacolo e, come ogni anno, si è trasformato in un grande Luna Park con i tendoni dei sette maggiori produttori di birra di Monaco pronti a inebriare di birra le migliaia di persone arrivate. Da Nola a Monaco di Baviera sono più di mille e cento i chilometri che abbiamo macinato con il nostro camper noleggiato per l’occasione. La spesa è molto più leggera in questo modo se si considerano i prezzi altissimi di alberghi e ostelli nel periodo della Festa. La capitale della Baviera ci ha accolto nel migliore dei modi con fiumi di birra, le tipiche “bavaresi” nei costumi tradizionali e tanti bei paesaggi. Prima di arrivare a München proviamo a fare tappa a Salisburgo, in Austria, ma dopo aver violato territori a noi proibiti con il camper (insomma ci siamo ritrovati in pieno centro storico con questo “mamozio” bianco) in cerca di un parcheggio per questa tipologia di veicoli, siamo andati via. Altro che CitySightSeeing! Terza città della Germania, dopo Berlino ed Amburgo, per numero di abitanti, Monaco è anche una delle più ricche e di conseguenza, care. Residenze reali, parchi, musei, chiese barocche: la città, bagnata dal fiume Isar, offre qua e là splendide immagini paesaggistiche ma soprattutto, ha, come tutte le città della Germania, un efficientissimo sistema di trasporti! Arrivando nella città i nostri occhi non potevano non adagiarsi su boschi di conifere, laghi e i cartelli di color marrone che indicavano, in prossimità delle uscite, per quale motivo fosse famosa la città o che cosa fosse importante vedere. Un’idea che ho pensato splendida anche per il nostro Belpaese. Il freddo c’è: e si sente. Anche se fortunatamente abbiamo goduto di due giorni di sole. L’ultimo giorno ho capito finalmente cosa significa “clima continentale”: una pioggia forte ed improvvisa mi ha ridotto come uno straccio per lavare a terra! Completamente improvvisa visto che si è scatenata proprio mentre bevevo un cappuccino all’aperto da Richart, una delle pasticcerie più rinomate della Baviera. Ma nei giorni di sole in cui siamo stati a spasso per le vie del centro di Monaco, tra Marienplatz, Odeonsplatz e Königsplatz abbiamo anche visto quel bel cielo azzurro tipico della Baviera. Quello che sembra sempre sussurrarti di rimanere ancora un po’ e che porteresti volentieri sempre, in qualunque posto del mondo, via con te.
Ognuno con una sua idea. Chi voleva rimanere più tempo in giro per la città, chi invece voleva rimanere più tempo nei tendoni a bere birra e guardare “davanzali”, chi più tempo nelle discoteche nei paraggi. Ma comunque sempre d’accordo su una cosa, divertirci. E così è stato: come i bambini nel parco giochi di Theresenwiese, abbiamo mangiato, gridato, bevuto e riso di gran gusto. Si commentavano situazioni. Si discuteva di azioni. A volte c’erano contrasti ma si era liberi. L’ultimo giorno, loro di ritorno in Italia, io ancora una notte a Monaco. “Mentre a Berlino c’è il maggior tasso di disoccupazione, a Monaco ci sono attualmente ben ventisettemila posti di lavoro”, mi dice Corinna, receptionist all’Adagio Aparthotel ed amica da tanti anni, bavarese DOC, conosciuta a Santa Maria di Castellabate quasi dieci anni fa. Era fine agosto, anno 2003. Corinna era in vacanza con la famiglia in Cilento. Uno sguardo e via, appuntamento per la sera. Condivisi con lei l’azzurro mare di inizio settembre e poi ognuno per la sua strada. Ci siamo ritrovati su Facebook ad inizio 2012. Ecco la potenza dei Social Network. Ecco come a distanza di dieci anni mi rivedo con una persona che mai e poi mai avrei pensato di poter rivedere. Corinna lavora per il gruppo Accor. Le stanze sono molto care, lei ha il turno di notte. Prendo una stanza. Ho un prezzo molto, molto di favore. Le offro la colazione il giorno dopo e riparto. Attraverso tutta la Germania, da Monaco a Berlino.
A mio lato una signora dai tratti eccentrici, artistici, a metà tra il ridicolo ed il grottesco nell’alzare la voce e nel suo ripetere costantemente “Wunderbar”. Come un bambino che impara, mi faccio scrivere la parola. Il viaggio di otto ore è stata la mia prima full immersion nella lingua tedesca. Piange la signora quando mi parla della figlia. Si chiude nella sua giacca verde acida e si abbraccia. Forse come stesse abbracciando la figlia ed il pensiero di lei. Riesco a capire che ha problemi. È una ragazza dark, uscita da un passato di droga e che vive in compagnia del cane. “Esce solo di notte”, mi dice. Avrà circa sessanta anni questa signora. Forse qualcosa in più. “Sto correndo da lei”, mi dice. “Cerco di farlo ogni fine settimana. Ne ha bisogno”. Ne hanno bisogno entrambe, io penso. Il bus della Berlin Linien Bus mi è stato molto economico. Appena cinquantacinque euro. Una miseria rispetto a quanto avrei pagato in treno. Ed entro anche nelle città: Ingolstadt, Norimberga, Bayreuth, Hof, Dresda, Berlino. A volte la signora mi dà l’idea di parlare a vanvera. Non la capisco in alcuni passaggi. Comunichiamo in una mezcla di inglese e tedesco. Quel poco di tedesco che posso capire dalle mie lezioni di un mese in Italia a settembre, nella posizione di instabilità tra il voler partire ed il non volerlo fare. Alla fine sono partito che ancora avevo intenzione di tornare. Ho salutato i miei. Ho sentito in mia madre l’abbraccio di chi sa che il figlio non sarebbe tornato. Ed infatti ho chiamato, borsa e valigia in spalla, dicendo “Mamma mi fermo a Berlino. Non so quando torno. Vado via con me stesso”.
Ed eccomi tornare solo due giorni ad inizio dicembre per il matrimonio di mio cugino/fratello/confidente Francesco, Mr Boccasana. Sì, il ragazzetto che urla dallo scooter “Ciao Boccasana” nella famosa pubblicità del Tantum Verde si è sposato. E non potevo mancare. Con lui ho un rapporto che va ben oltre l’amicizia o il grado di parentela. È pari all’amore che nutro per l’altro Francesco e Mariangela. Un amore fraterno, del sacrificio, della condivisione totale. Non potevo mancare. Ecco, sono stati gli unici due giorni che sono tornato in Italia. Ed ora inizia Febbraio e ricomincio. Non so quanto tempo mi fermerò questa volta. Quel che basterà. Di sicuro. So solo che sento ancora una volta l’odore triste della partenza.
Intanto i fermenti mediatici e politici italiani raggiungono anche la Germania. Anche io sono un figlio di Silvio. Sì, Silvio Conte mio padre, cosa avete capito. La parabola dell’altro Silvio riecheggia anche qui in Germania. Ognuno ha una sua idea. E le idee vanno ascoltate, criticate e confrontate, sempre. Possono anche essere combattute ma l’importante è che siano sempre espresse. E che ci sia la libertà per farlo.
Che ci sia libertà di poter scegliere e di poter avere dei gusti. A proposito di gusto. La musica. Venerdì in una delle tante cene in casa di Mutter Janis, adagiati sui divani di color beige, quasi fossimo nel mezzo della Cena di Trimalcione, atmosfera simposiaca, vino e teste pensanti, il discorso si è accanito sulla musica. È soggettiva o no? La buona musica è tale perché rispecchia il gusto della persona o ci può essere, oggi, musica che è arte a priori. E se non piace una determinata musica che viene ritenuta dai critici “arte”, si hanno dei gusti di merda e non si capisce niente? Esiste il concetto di arte nella musica di oggi? Da una parte Eleonora e Janis, dall’altra io, Matteo e Simona. Ma la parola più intelligente e ponderata è sempre quella di Nuno. Portoghese, 33 anni, ingegnere civile. Esiste il canone della musica? La musica è arte? Per sua stessa nascita se la musica viene considerata arte, sarebbe soggettivamente la confessione di un cantautore o musicista o paroliere, dunque apparterrebbe alla sfera d interessi personali che esplodono e vengono fatti conoscere. A questo punto incontra la gente. Me, te. Noi che l’ascoltiamo. E possono suscitare emozioni, ricordi, stati d’animo. A seconda di quanto provoca io dico mi piace o non mi piace. E dunque non c’è un canone? Forse sì, nel tecnicismo. Probabilmente Eleonora intendeva nel tecnicismo e uso della voce, degli strumenti, di sounds ricercati ed inventati. Ma oggi è finito il tempo dell’immortalare. Più che altro la differenza è tra gusto, arte, canone. stereotipo e soggettività/oggettività. Considerare oggi che la massa di ragazzini in Italia guardano Uomini e Donne, si vestono come i tronisti e corteggiano tramite Facebook equivale a definire arte un qualcosa di seguito da tutti. No, è un fenomeno di massa. Sono fenomeni di massa. Oggettivi. Ma a qualche ragazzino di questi piacerà di sicuro ascoltare Puccini, suonare il pianoforte ed andare all’Opera. Quella è arte. E dunque è soggettiva? Si è soggettiva. Il cerchio si chiude. La musica è soggettiva dunque? Si.
Nuno. Che dire di Nuno. Gli voglio un bene profondo. È stato il mio primo amico qui a Berlino. Al primo sguardo ti da l’impressione di una persona tranquilla, molto calma e pacata, precisa come lo sono solitamente gli ingegneri. Ma basta parlargli un poco e ci si rende conto che è una persona che soffre. Non sono ancora riuscito a capire il vero nucleo della sua sofferenza in cosa sia ubicato. In quale esperienza passata o condizione presente. È testardo. È sicuro delle sue opinioni e del suo sapere. Litiga spesso quando parla, soprattutto con Chiara, perché ha una visione del mondo completamente diversa. È realista Nuno, è sognatrice Chiara. Condivido con lui una passione per la geopolitica e la simpatia per il portoghese, molto simile a quel gallego imparato nei miei anni di permanenza in Galizia. Ho come l’impressione che ci sia stato un momento in cui Nuno abbia sofferto un qualcosa che lo ha destabilizzato a livello psichico. Ma forse è solo l’impressione. So di sicuro che assomiglia ad un personaggio uscito dai film degli anni settanta, dai fumetti, dalle saghe, dalla vita hippie. Il suo capello liscio e lungo ad onda sulla fronte, il suo baffo. A volte è buffo. Soprattutto quando cerca in ogni modo di parlare italiano. Lo sarò anche io ai suoi occhi quando cerco di parlare portoghese. Ma almeno ci proviamo.
Sono finalmente entrato nel Berghain/Panorama. Due domeniche di seguito. Sono entrato alle 18.30 del pomeriggio. Sono uscito alle sei di mattina. Come entrare in un film. Si, come se entrassi in Blade Runner. Un palazzone alto trenta metri con le scale e la piattaforma sospese nel vuoto. Trasgressione. Dappertutto. Cemento e acciaio. Luci psichedeliche. Promiscuità totale. La mia innocenza. Interiore, psicologica. È stata una gran bella serata. All’interno della struttura ci sono sia il Berghain che il Panorama. Berghain Tecno. Panorama più tendente all’House. Musica forte. Assordante. Ma molto bella e trascinante. Gente di tutto il mondo. È stato eletto come uno dei più bei club al mondo e le selezioni che fanno all’ingresso sono ancora del tutto sconosciute. Allora, come si fa ad entrare al Berghain? Dipende. Una parola? Fortuna. Mai nessun problema per gli altri club ma per questo le cose sono più dure. Come una pallina rimbalzina capita delle sera che vieni respinto da un club all’altro. E con il freddo non è una sciocchezza. Mi è capitato soprattutto all’inizio della mia vita berlinese, poi probabilmente ho cominciato, senza rendermene conto, ad assumere gli atteggiamenti ed il modo di fare dei ragazzi che vivono questa città. E non ho avuto più problemi. Un tripudio di anime perse. Battiti sordi sulla piattaforma sospesa. Rumori di metalli. Odore di sudore vissuto. Il Berghain ti trasmette la sofferenza del mondo. Sembra di scendere, salendo, nei gironi dell’Inferno Dantesco, tra lussuriosi, iracondi e peccatori di ogni tipo. Ed ognuno ti grida, con forza estrema, “vieni via con me”.
Ho parlato di ingenuità ed ora di innocenza. Lo sguardo innocente di un bambino, l’innocenza del ciclo vitale. Il mangiare altri animali. Rido quando Chiara mi dice che il mio corpo non ha bisogno di mangiare carne e che è solo un bisogno aggiuntivo dell’uomo. “Lo fai per piacere e non perché ne hai bisogno”. E penso all’innocenza con cui un leone sbrana una gazzella e mi viene in mente la splendida e vecchia pubblicità della Gatorade. L’innocenza assomiglia al rispetto. Rispetto del mondo e delle sue leggi. Si può essere innocenti anche essendo malvagi. Una innocenza malvagia che molto spesso causa lacrime. Di sofferenza, di commozione, di gioia, di tristezza.
È molto facile far piangere. Il difficile è far ridere. Ci vuole capacità ben maggiore. “Quindi tu fai solo finta di essere un coglione”? Chiedono a Jim Carrey/Andy Kaufman nel film “Man on the Moon” di Milos Forman del 1999. Però ridete. E di gusto anche. Forse poi tanto coglione non lo è chi ti fa ridere. I pazzi fanno ridere. Molte volte anche intelligentemente. E ti tirano su una giornata. “Tu sei un pazzo, ma potresti anche essere un genio” dice George Shapiro quando conosce e vede gli spettacoli di Andy che non fa differenza tra vita reale e vita sul palcoscenico. Per lui l’intera vita è un palcoscenico. E per me. Consiglio a tutti di vedere questo film, è una boccata d’ossigeno per i tempi che corrono in cui sembra strabordare ripugnanza in ogni cosa che si fa. Una ripugnanza ingiustificata che a volte ti si attacca addosso solo perché non c’è condivisione di idee, interessi, gusti. Io lo rivedo sempre con piacere. E l’ultima volta l’ho fatto in compagnia della ragazza a cui è legato il mio pensiero di Berlino.
Se dovessi pensare al mio ricordo più bello di questi quattro mesi in terra germanica penso al suo sorriso. Al suo scappare e poi riavvicinarsi. Alla sua indecisione forzata. Al suo dirmi “Passo da te appena finisco” oppure “Ora te ne devi andare”. Alle nostre birre, al nostro vino, alle nostre cene. Al mio presentarmi sotto casa sua, alle sue zuppe, ai nostri occhi che si cercano dappertutto, in mezzo agli altri, di nascosto, tra sospiri. Alle nostre uscite a vanvera, solo per il gusto di stare insieme. Ai discorsi nati dal nulla, ai contrasti, ai modi di vedere le cose differenti. Alle parole a casaccio, alle mie che rincorrono le sue e viceversa. Ai battiti improvvisi, agli abbracci forti ed ai brividi intensi. Qualcosa nato per caso, come quando nel biliardo sbagli un colpo e butti dentro due palle. La bambarria. Penso ai miei gesti senza pensare, al mio correre da lei nel cuore della notte per sentirmi dire “non ti faccio salire”. Al perseverare. Il mio nel corteggiarla. Il suo nel respingermi. Alla mia cucina improvvisata aspettando che lei passasse, alle sue mani su di me, al mio abbraccio a spezzarle le ossa. Alle fughe nei bagni, al nostro essere clandestini, al rischio di essere scoperti. Al suo pigiama rosa. Alla mia scimmietta nel taschino. Ai suoi elastici ed alle mie spillette. Al suo vestitino a righe con le palline, alle mie t-shirt. Al Karaoke, a Dirty Dancing ed alla presa maledetta. Alla recrudescenza del nostro distacco. Alla lacrima di me che scendo, alle lacrime di lei che va. Al suo accucciarsi lavorando sul parquet della mia stanza. Al suo chiedermi una mano. Al suo darmi la mano. Al suo sfiorarmi. Alla marmotta e ai fiori di campo. Al pane della Backerei. Alle sue sigarette nello stanzino, al suo rosso e al suo rossore. Al freddo dei mercati di Natale, alle foto ed alla tomba di Helmut Newton, alla mia febbre ed al suo soccorso. Al girovagare per le strade di Berlino con una macchina scassata e senza cognizione della strada. Al Mano, al Macondo, all’Intimes, al DachHammer, all’Aspettando Filippo, al Wendel, allo Chagall, al Kulturbrauerei, al Burgermeister, al Rathaus Schoneberg, alla tomba di Marlene Dietrich. Al nostro sentirci in un film, a Man on the Moon, alle Invasioni Barbariche, alla Notte da Leoni. Al tralignare. Al calore solare ed all’energia dei movimenti. Ai nostri messaggi.
Arrivi al punto in cui pensi che forse sia indispensabile andar via. Scomparire così dalla sera alla mattina, dal sorriso complice della notte precedente al lento oblìo del giorno successivo. E del successivo ancora. Non contare più i giorni ma lasciarli semplicemente scivolare, cadenzati, uno dopo l’altro. Abbandonare il tuo cuore sotto una lastra di ghiaccio e lasciarlo lì. Io l’avevo fatto. Ed erano ormai un bel po’ di anni che non provavo un sentimento del genere. Forte, coinvolgente, distruttivo. Di quello che di notte ti fa rimanere sveglio a scrivere queste stupide righe per potertene ricordare. Per riuscire ancora una volta a sentire come si scioglie la razionalità davanti all’attrazione. Una confusione di bramosia, desiderio e pura passione. Qualcosa che senti scorrere nelle vene. Un impulso irrefrenabile a voler sfiorare quelle labbra con le dita, a sentire il calore del suo affanno. Il desiderio di godere del suo splendido sorriso che riempie di sole anche le cupe notti invernali. E quegli splendidi occhi che ti ammaliano e ti fanno pensare, nello stesso momento in cui ti lanciano un colpo, di voler bloccare quel momento così, in eternità. Ed inizi ad amare quelle espressioni che fino a qualche giorno prima trovavi ridicole, da bambina. Comincia ad interessarti ciò che ascolta, ciò che pensa, ciò che vuole. E poi il tradimento dietro l’angolo. Un commento, una parola non detta, uno sguardo furtivo ma fuggitivo. Parole che fuggono, parole che arrivano al cuore, parole che spesso fanno male, parole che a volte ti illudono. Erano anni che non mi sentivo così. Sospeso tra la voglia di osare e quella di scappare. Scappare per il passato, per ciò che già è stato vissuto e che temi possa ripetersi. Ancora una volta. Maledettissima testardaggine. Sospeso tra la voglia di parlarle e guardarla. Rimanere immobile a contemplarla e sentirti ogni tanto apostrofato “Ma che c’è”! E come le spieghi che cosa ti passa in quel momento per la testa? Come puoi minuziosamente descrivere la tortura che stai facendo al tuo cuore, ai tuoi occhi, alla tua vita? Come può una fiera liberarsi dal torpore provocatogli dal colpo soporifero di un cacciatore? Come può un uomo resistere a quel miserabile putto che lo inonda di dardi meschini? Ti ho voluta tanto e mi sono goduto tutto ciò che mi hai regalato. Ma forse è il momento di lasciarci, di dirsi un semplice “Ciao”.
Alla quiete dopo la tempesta. Alle canzoni dedicate. Agli sguardi strabordanti. Alla neve ed alla pioggia. All’accoglienza calorosa, interessante ed ospitale. Alla finestra illuminata in una notte di gelo. Alla malattia sconfitta. Al voler correre a casa. All’essere in balìa della passione. Al mio chiederle se ha mangiato. All’aeroporto. Al suo aspettarmi. Al mio arrivo. Al suo chiamarmi “Fioravante”. Al mio ”Ciao”. Al suo sorriso. Al mio sussurrarle piano “Vieni via con me”.
Fioravante Conte
Il sarracino consiglia:
Man on the moon, spezzone del film di Milos Forman
La mia prima volta al Berghain/Panorama, Night Disco, magazine online sul mondo della musica dance
PER RIDERE. Come entrare al Berghain/Panorama, il Mitte, Quotidiano di Berlino per Italofoni
I sette specchi esseni, di Gragg Baden, trascrizione della videoconferenza “Camminare tra i mondi”
I sette Corvi dei fratelli Grimm, Fiabe dei Grimm
Il sarracino ha in mente
Chi non ha le nostre stesse ripugnanze ci ripugna (Paul Valéry)
Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente. (Voltaire)
Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla (Laozi)