Nu Sarracino a Berlino

L’attesa e il tempo perduto

AlexanderAttesaCop

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Ancora in attesa. Nella sala d’aspetto dei miei pensieri. Mercoledì scorso ho affrontato il mio ultimo colloquio di lavoro per la multinazionale che inseguo ormai da tre mesi. Per la settimana prossima arriverò ad un esito. Tre persone per un solo posto. Io attendo. Ed ho atteso anche nella hall di questo grattacielo in Warschauer Strasse, sulla cui sommità campeggia la scritta a lettere cubitali BASF. La multinazionale chimica Badische Anilin und Soda Fabrik, una delle più grandi al mondo, con sede-città a Ludwigshafen ha scelto Berlino per esternalizzare, come “service outsourcing center”, una serie di sevizi alla produzione quali la gestione del personale, la contabilità, i servizi informatici e di consulenza per la maggior parte di clienti e fornitori europei. La “torre” BASF non passa inosservata, innanzitutto per il luogo in cui campeggia, in quel tipico colore rosso dei distretti industriali e vecchie fabbriche o distillerie della DDR e poi per la costruzione vera e propria: un cubo di vetro di cinque piani appoggiato sopra il vecchio stabile della fabbrica di lampadine Narva, uno dei vecchi simboli dell’industrializzazione e deindustrializzazione in Germania Est, e ancor prima, 1856, sede della prima centrale elettrica berlinese. Oggi tutta quest’area dell’Oberbaum City è proprietà della nostra Unicredit S.p.a. Parlavo del mio colloquio. Il mio secondo colloquio. Tre ore di “dirigenti” che scrutano i tuoi movimenti, indagano le tue parole e cercano di capire se tu sia la persona giusta per entrare dalla porta principale. Nell’attesa penso. L’ho sempre fatto. Penso come chiunque.

Mi hanno detto di presentarmi un po’ prima. E così eccomi, quando manca un quarto d’ora all’una, al desk, sfoggiando il mio solito sorriso e con il mio tedesco trimestrale, implementato rapidamente grazie ad un corso alla scuola “La Melograna” e soprattutto grazie ai miei coinquilini tedeschi,  chiedere ad una signora sulla cinquantina il badge per la mia job interview. Doctor Fioravante Conte. “Sì, sono proprio io” ed intanto penso tra me e me a quanta strada e quante esperienze si sono sovrapposte in questi mesi, in un continuo altalenarmi tra situazioni e persone/personaggi completamente diversi tra loro. La gente della notte è completamente differente dalla gente del giorno. E la gente nella notte diventa altro da ciò che è durante il giorno. Di giorno si muove, nell’attesa poi della notte in cui esplode il vero io delle persone. Ecco, forse i colloqui lavorativi sarebbe meglio farli di notte.

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All’una precisa ecco scendere una ragazza, avrà avuto trentacinque anni suppergiù. Si presenta, mi stringe la mano e mi invita a seguirla. Mi dice che è la segretaria del “grande capo”, parla un buon inglese. Ci capiamo facilmente. La mia agenda prevede un primo colloquio di un’ora con il Team Leader per il mercato italiano, spagnolo e portoghese e con il supervisor del mercato italiano. Dopodiché la palla passerà al “grande capo” del settore Accounting per un’altra ora. Infine toccherà al settore HR, Risorse Umane, con cui ho già avuto un primo incontro lo scorso ventisei novembre. Se dovessi pensare ad un oggetto che possa rappresentare la mia vita, penserei proprio ad una agenda. La precisione dell’agenda che ogni anno riempio da ormai sedici anni. Il mio taccuino di vita, le spese che sostengo, le persone che conosco, gli appuntamenti che ho. I messaggi che mi fanno riflettere. Le emozioni che provo. La mia prima agenda risale a sedici anni fa, avevo quattordici anni e mi porta al ricordo di Nadia. È  una delle mie più care amiche. Ad Agosto correva a casa mia mentre io godevo del sole e del mare estivo per trovare la mia agenda e leggere i miei pensieri. Mi sale un sorriso autentico se ci penso. Il sorriso del ricordo. È un sorriso dolce, che ti accarezza la pelle.  Agere, fare, le cose da fare. Sempre tante. Sono molto preciso nell’annotare, scrupoloso e molto critico. Osservo e seleziono le informazioni. Faccio scelte, rivedo le mie opinioni, penetro a fondo nelle cose e nelle persone. Dovrei essere anche nei sentimenti vissuti più preciso. Ed invece no, mi lascio trasportare dalle emozioni del momento. Spesso, troppo spesso.

Di solito è importante, prima di una qualunque prova o colloquio lavorativo, che ci sia un poco di tensione. È la carica giusta per affrontare al meglio le situazioni. Mentre salgo in ascensore verso la stanza in cui sta attendendo la mia speranza, mi sento un ragazzo in gamba. Soprattutto nel momento in cui penso di aver rischiato tempo, denaro ed affetti in una terra straniera per una realizzazione meritocratica di quanto fatto negli anni passati. Ma in fondo, nell’attesa, ci avevo pensato incessantemente. Non è altro che una ennesima sfida che ho voluto affrontare. Uno stramaledetto difetto di mettermi sempre in gioco. Ho sempre amato le sfide… 

La prima ora di colloquio procede in maniera amena, si parla con tranquillità delle mie esperienze passate, mi si propongono situazioni di difficoltà per mettere alla prova la mia capacità di “problem solving”, si parla dei miei obiettivi e si scende in domande più tecniche sulla gestione economica e strutturale delle società. In alcuni momenti si ride. Mr Soverchia e Mr Ricciardi sono due ragazzi, proprio come me, avranno una decina di anni in più al massimo. La nostra chiacchierata è in italiano a differenza del primo colloquio di novembre in cui si cominciò con lo spagnolo, per poi proseguire con l’inglese. Un’ora e dieci circa ed ecco arrivare il grande capo. Mi alzo, sorrido e mi presento: “Freut mich, sie kennen zu lernen”. Ricambia il mio sorriso. Con lui si parla solo inglese. Gli dico che parlo un po’ di tedesco, che lo capisco abbastanza ma che sostenere un colloquio lavorativo completamente in tedesco mi è cosa, per ora, difficile. Non è un problema, mi dice che fa un po’ di pratica con l’inglese anche lui. Mr Berchtold avrà al massimo quarantacinque anni. È tedesco, nel modo di presentarsi, di stringerti la mano e di guardarti. Anche di porre le domande. Mi mette a mio agio. Affiora giusto un po’ di tensione nello spalancamento dei miei occhi, che da grandi diventano giganteschi. La nostra chiacchierata è piacevole, anche se sul tecnico e sulla mia esperienza in accounting, da uomo e professionista vissuto qual è, riesce a capire che non sono proprio ferrato. Ma apprezza la mia sincerità, la mia caparbietà e la mia personalità. Fa i complimenti alla mia perseveranza e quando alla domanda “What is for you a team” gli cito i Malavoglia “Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo” dicendo dunque che se un dito non funziona la mano nel suo lavoro trova difficoltà, mi fa un ennesimo sorriso. Legge e rilegge le mie esperienze, soprattutto quelle giornalistiche e letterarie e mi dice di esserne affascinato. Mi chiede se ho provato qui a Berlino a cercare lavoro in questo campo. La mia risposta è negativa. Sto provando ad entrare, ora attraverso il suo giudizio e la sua scelta, nella società che rappresenta ora davanti ai miei occhi. E così ecco avanzare un’ultima richiesta. Mi chiede di scrivere in cinque minuti in inglese, con un pennarello blu, sulla lavagna, un pezzo sui miei tre mesi qui a Berlino. Per mettermi alla prova aggiunge anche “se vuoi e te la senti. Se non vuoi non fa niente, capisco che può essere difficile”. Non mi è mai piaciuto il blu, è un colore insicuro. Non parlo del blu notte, ma di quel blu da penna bic, da pennarello blu, da tempera blu. Il blu dei lacci delle scarpe, il blu del neon in un acquario, il blu dei cartelli pubblicitari. Ma in questo caso non posso attendere ed ecco la lavagna riempirsi di parole e racconti. Mi stoppa, viene vicino, stacca il foglio con un gesto rapido e guardandomi compiaciuto mi mette una mano sulla spalla e dice “questo lo tengo io, magari un giorno quando diventerai un giornalista famoso avrà un gran bel valore”. La nostra chiacchierata termina con una risata condivisa.

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Un preludio incantevole alla tragicità dell’incontro successivo. Arriva la ragazza di Risorse Umane. Stenta a parlare inglese. In alcuni frangenti devo suggerirle io i termini. Ho l’impressione che non riesca a capire tutto ciò che le dico e spiego. E forse non è una impressione. Allora mi trovo dopo mezz’ora a dirle che se preferisce possiamo parlare in tedesco, nonostante le mie grosse difficoltà. Sembra strano come una multinazionale da 120.000 dipendenti, più di 160 tra filiali e joint venture in tutto il mondo e con 41 siti produttivi  tra Europa, Asia, Nord e Sud America, aperta dunque a tutti i mercati planetari mi faccia fare un colloquio con una persona che con una buona possibilità può trovarsi in difficoltà. Tre ore, il colloquio termina, mi accompagnano all’uscita e mi salutano.

Ed ora attendo. Attendo una risposta definitiva. Risorse Umane non è riuscita ad inquadrarmi. Il “grande capo” dice che ho molte potenzialità ma esperienza in accounting poca. Team Leader e Supervisor firmano per il mio ingresso. Sono scettico, ed attendo. Ed intanto, nell’attesa, continuo a vivermi la città. Questa Berlino che da una settimana mi sembra tanto vuota. È andata via una persona a cui tenevo molto e con cui avevo condiviso molti angoli di questo luogo e del mio cuore.

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Nell’attesa di novembre avevo fatto domanda per un progetto Leonardo a La Coruña. Qualche giorno fa mi è arrivata la notizia di essere stato preso. Il settore è quanto più si avvicina alla mia esperienza: marketing, comunicazione e progettazione comunitaria nonché sviluppo locale. Ed interessa anche il settore turistico. Potrebbero essere tredici settimane di ulteriore crescita ed esperienza. Senza contare poi che andrei in una terra, la Galizia, che già conosco bene e che trattiene da tempo un pezzo del mio cuore.

E quindi, come dicevo, sono in attesa. Ma intanto, continuo a vivermi le notti berlinesi. Una cenosi di gente disparata in cui trovo la mia identità. Gli incontri sono il valore aggiunto di questa città. Ed è nell’ecosistema della notte che ho conosciuto tante persone con cui oggi mi trovo a condividere pezzi di città.

Preferisco sempre uscire durante la settimana. Il martedì ho un appuntamento fisso da Gianluca e Filippo, “Aspettando Filippo” dove guardo un film in italiano con i sottotitoli tedeschi, mangio un bel piatto di pasta e mi bevo una Kostrizer. È una delle poche birre che bevo con sommo piacere. Come me ci sono altre persone che non si perdono l’appuntamento del martedì sera. Ed è così che ci si conosce, ci si ritrova e si chiacchiera. E, diciamo la verità, in qualunque città ci si trovi si sceglie sempre un luogo in cui passare più tempo, in cui ci si sente a casa. Ecco a Berlino per me è “Aspettando Filippo”.

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Preferisco sempre uscire durante la settimana. Odio il sabato. Il sabato è il giorno di tutti, in cui trovi di tutto dappertutto. Negli ultimi anni, in qualunque città sia stato, è il giorno in cui sono uscito meno. Amo il lunedì. Si ricomincia, è l’alba. Solitamente il lunedì ascolto musica jazz: spesso vado a Kreuzberg, fermata Schlesisches Tor, c’è il Café Wendel. È un locale le cui mura bianche sono completamente ricoperte da graffiti, in uno stile a metà tra il liberty e il moderno, pieno di divani in pelle, sedie da fine ottocento, e lumi e lampade da salotti buoni francesi. Qui il lunedì sera vengo ad ascoltare jazz, bevo vino bianco e mi diletto della compagnia di chi mi accompagna. Ho cambiato solo due volte in questi quattro mesi: una volta sono stato al B-Flat sulla Rosenthaler Strasse ad ascoltare con una amica francese un gruppo molto bravo di musicisti. Un’altra volta sono stato allo JazzClub Schlot sulla Invalidenstrasse, nei pressi di Mitte. Questi due locali sono acusticamente e strutturalmente studiati per concerti ma non danno lo stesso senso di rilassatezza del Wendel. Non so perché. A volte un posto ti trasmette sensazioni, di vissuto, di esperienze che lì si sono intrecciate. E il Cafè Wendel mi dà questa sensazione. E come se avesse visto tante cose e le trasmettesse a chi ci entra.

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L’ultimo lunedì è stato particolare. Mi sono visto con tre amici: Matteo, Carlo e Simone. Siamo stati a casa di Matteo, nei pressi della fermata della S-bahn di Frankfurter Allee. Abbiamo bevuto qualcosa insieme e alle due siamo scesi. Carlo e Simone sono tornati a casa. Sono rimasto con Matteo. Matteo è di Bolzano, 25 anni, psicologo. Chi lo conosce per la prima volta rimane spiazzato e può anche odiarlo. Ha un carattere particolare. Trasmette immediatamente l’immagine di un uomo sicuro di sé. Vuole fare il maestrino, colui che sta a Berlino da un anno e mezzo e così ti ripete mille volte “stai a sentire chi ne sa”. Si, lo si può non tollerare fin da subito. Ha venticinque anni ma prova gusto nell’essere più grande e maturo di quanto effettivamente è. Ma a volte, nei suoi discorsi, si sente tutto il peso dei venticinque. E così una sera, in una delle numerosissime cene decembrine sparse nelle case di amici, cominciò a farsi brillante prendendo in giro me. Molte persone sbeffando e schernendo altrui, si pascono di uno ingiusto diletto, che il più delle volte viene loro in danno dice Giorgio Vasari. In quell’occasione mi resi conto che non aveva capito proprio nulla di me, mostrando così, tutta l’inaccortezza dei venticinque anni. E nonostante continuasse a ripetere “Io sono psicologo, queste cose le capisco” quella sera mi fece capire di non aver capito, praticamente, un cazzo. Ci sono passato sopra e gli ho dato un’altra possibilità, dopo essermi staccato per un po’ dalla sua compagnia. Non credo l’abbia capito. Probabilmente se ne sta rendendo conto ora che legge queste riflessioni. Ma oggi posso dire che il suo atteggiamento è cambiato. O forse è cambiato il nostro rapporto che si è indirizzato su discorsi più seri. Matteo è un generoso, persona intelligente e dai tanti interessi. Ci puoi parlare di qualunque cosa perché ha il gusto della curiosità. Ed in questo è molto simile a me. Ha un carattere forte come me, anche se forti in realtà non lo siamo. Ma è ciò che lasciamo intravedere. È un rispettoso. Lunedì sera siamo scesi da casa sua alle due di notte e siamo andati verso il KPTN sulla Simon Dach Strasse, in Friedrichshain. Davanti a questo spoglio locale dall’insegna bianca abbiamo conosciuto Christian, veneziano, con uno spiccato accento della sua terra. Matteo ha intavolato subito il discorso in dialetto avendo studiato per molti anni a Padova e così da una cosa all’altra ci siamo ritrovati in un locale a cercare di ordinare birra. Ma nel momento in cui sto tirando fuori il portafogli ecco una ragazza mi blocca il braccio e mi dice “ Fermo. Vuoi venire a fare festa a casa mia”? E così ci ritroviamo tutti e tre, assieme a altre persone, in casa di questa ragazza berlinese, nel cuore della notte, a fare festa. Non è la prima volta che mi capita. Con questo voglio dire che qui davvero ogni ora è buona per uscire e starsene in giro. E così ti capita di conoscere persone e parlare qualsiasi lingua tu abbia imparato nel corso della tua vita. Dal dialetto veneziano al vietnamita. A qualunque ora del giorno e della notte.

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A dire il vero, odio l’attesa. È una perdita di tempo. Ed ecco che nell’attesa dell’arrivo da una stazione all’altra della metropolitana tiro fuori il mio vocabolarietto di tedesco. Oppure la guida della Lonely Planet di Berlino. E leggo. Ho sempre odiato perdere tempo. Anche il sonno l’ho sempre visto come una perdita di tempo e così le mie quattro/cinque ore a notte erano più che sufficienti per non sentirmi un nullafacente. Negli ultimi due anni avevo orari pazzeschi: dalle nove di mattina staccavo dall’azienda o alle quattro o alle otto. Quando staccavo alle quattro mi dedicavo ai giornali, ad inchieste, interviste e convegni, per poi rimanere fino alle tre di notte a scrivere. La mattina di nuovo poi sveglia alle sette e mezza. Quando staccavo alle otto solitamente avevo la serata da presentatore con il quiz game “Il Cervellone”. Un gioco itinerante nei locali campani a cui prestavo la mia voce, la mia esperienza e professionalità. E giravo dalle terre più lontane dell’Irpinia fino alle piazze centrali del napoletano. Il sabato e la domenica oscillavo tra Ilnolano.it e week end, il lavoro da presentatore e i miei giri per i piccoli borghi campani per la mia rubrica su Cinquecolonne Magazine, FioreVagabondo. A volte il fine settimana lavoravo con l’azienda. A volte tra Avellino, Salerno e Napoli. A volte tra Roma e Milano. Una cosa è certa, ero sempre disponibile per tutti tranne per le persone che più mi amavano. E non mi sono accorto così che la persona più importante della mia vita non era felice. L’ho persa. Ma questo è un altro capitolo della mia vita.

Mi sono sempre ingegnato nel pensare come utilizzare il tempo e non semplicemente passarlo. Ma ho tralasciato molto spesso gli affetti. Ed è stata proprio questa la molla che mi ha fatto cambiare vita da agosto, soffermandomi un po’ di più a pensare e badando molto di più agli affetti. E così quando mi chiedono “ ma tu Fioravante, cosa stai cercando?”. George Bernard Shaw muore mentre novantenne insegue una farfalla. Chi non si ferma mai rischia sempre. Ecco cosa cerco, il rischio. Ma no, forse la felicità. O forse l’amore. O forse…

Mi hanno chiesto, in uno dei centinaia di messaggi di auguri arrivatimi per il mio trentesimo compleanno, cosa si provi ad essere un emigrato. Il problema è che io effettivamente lo sono ma non mi sento tale. L’emigrante era solitamente chi per necessità era costretto ad andarsene in cerca di un lavoro e di fortuna. Non mi sento tale. Anche se lo sono. Ma non ho questa necessità. Però mi emoziono e mi è scesa anche una lacrima l’ultima volta che ho visto un breve filmato curato da due giovani italiani sulla condizione di emigrante. È un video intenso, si chiama “Dubbio Made in Italy” ed esprime perfettamente la vita di noi giovani “nuovi emigranti”. Di corsa ma in continua attesa che nella nostra terra qualcosa cambi.

Fioravante Conte

Il sarracino consiglia:

Schizofrenia architettonica a Berlino,  Blog di Berlin Kombinat

Lampadine, DDR Tagebuch, diario di viaggio dal cuore della Sassonia

Emigrare oggi senza dimenticare l’Italia, Andrea D’Addio/Berlino Cacio e Pepe per Zingarate.com

Dubbio Made in Italy, Zero Production

Voce fuori campo: Dopo un paio di settimane ti abitui al cibo scadente, ti abitui al caffè nei bicchieri di carta, al pane che sa di plastica. Ti abitui alle corse per prendere la metro, a tutta questa gente che condivide poche centinaia di metri quadri ogni giorno, e non sa dirsi neanche “buonasera”. Ti abitui alla pioggia, al sole che sorge così presto. Ti abitui alla mancanza del mare perchè puoi usare i parchi come metadone, ti abitui ai mezzi che funzionano, alle strade pulite, ai bagni pubblici decenti. Ti abitui alla mancanza delle tapparelle, ti abitui ad essere puntuale, alla mancanza del bidet, ai musei gratuiti, al lavoro gratificante. Ad una lingua che non sempre puoi capire ma che è tua. Agli stipendi proporzionati, alle tasse basse, ad un eccellente livello di civilità. Ti abitui alla nostalgia del sole, della calma delle campagne sterminate, dell’olio buono, del vino del contadino. Ti abitui presto e non per questo ti scordi tutto quello che hai lasciato. Se ripartirei adesso? Senza dubbio…

Testo che scorre in basso: Non ho veramente voluto nulla di tutto questo. Non sono qui per godermi i vantaggi dell’emigrazione. Non mi godrò mai nulla fino in fondo, starò semplicemente qui, in piedi, a sudare, a ricordarvi con la mia lontananza di avere dei rimpianti. Per tutto quello che di bellissimo mi avete tolto. Per tutto quello che avrei potuto fare, essere, avere a casa mia. E anche se qua andrà tutto per il meglio, non sarò mai a casa, e questa lingua non sarà mai mia come tutte queste nuvole. Ma non ve ne fregherà nulla. Mai. Forse un giorno. Quando le vostre città in macerie puzzeranno di vecchio e sentirete finalmente la mancanza di tutti quei ragazzi che avete mandato via a calci. Perché credo che sia tutta colpa vostra, di nessun altro. Nessun politico, nessun amministratore, nessun potente ha più colpa di voi. Di noi. Perchè mi sento responsabile di questa catastrofe tanto quanto lo siete voi. È ora di ammettere che abbiamo fallito. E che il nostro mondo è crollato. E io non sono che una scheggia andata a infrangersi da qualche altra parte.

Il sarracino ha in mente:

La vita di ogni uomo finisce nello stesso modo. Sono i particolari del modo in cui è vissuto e in cui è morto che differenziano un uomo da un altro. (Ernest Hemingway)

Il tempo, che rafforza le amicizie, affievolisce l’amore (Jean de La Bruyère)

Il tempo non è un sacco, magari è un bosco. Se hai conosciuto la foglia, poi riconosci l’albero. Se l’hai vista negli occhi, la ritroverai. Pure se è passato un bosco di tempo (Erri De Luca)

SchonebergCop

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Questa voce è stata pubblicata il gennaio 17, 2013 alle 5:36 PM. È archiviata in Amore, Attesa, Berlino, Cambiamento, Emigrazione, Fioravante Conte, Lavoro, Speranza con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Segui tutti i commenti qui con il feed RSS di questo articolo.

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