Nu Sarracino a Berlino

Il tempo della crisi

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Dicono che la parola “crisi” in cinese, possa significare, nei segni che compongono l’ideogramma,  “pericolo e opportunità”. Durante le presentazioni aziendali negli ultimi due anni di lavoro, ripetevamo spesso che anche in giapponese la parola significasse e fosse vicina al senso di “rivoluzione”. E questo lo abbiamo detto e ridetto nella presentazione a Milano alla Samsung/Saiet, a Stresa durante il CeaTechHome Mediterraneo, a Vicenza all’All Digital, a Bologna, Firenze, Roma, durante gli “halfday” workshop, eventi ed incontri con ordini professionali, imprenditori, studenti e tanti potenziali acquirenti. Due anni per me di crescita professionale notevole con a capo e a lato un giovane imprenditore quarantenne capace di trasmettere senso del dovere, umanità e perseveranza in ciò che si fa. Due anni poi interrottisi a fine luglio per “il bene aziendale”. Crisi. Rivoluzione. Ed io vado a casa. Probabilmente l’accostamento crisi-rivoluzione è un falso mito. Una falsa diceria. Una di quelle cose che si usano per stupire, magari molto spesso mettendoci vicino anche una storia particolare come ad esempio un incontro con il maestro Miyazaki o con un guru del “come sviluppare una forza di volontà simile a quella dei cinesi” o del “come preparare con calma saffica il sushi giapponese”. Una baggianata. Io amo pensare alla parola, nella lingua che più mi si addice, quel greco classico studiato negli spensierati anni del Liceo in cui portare un buon voto a casa era l’unica cosa che poteva preoccuparmi. E nemmeno tanto, visto che ci riuscivo con una inoperosa dimestichezza ed estrema naturalezza. Mi piace pensare al verbo “krino”, giudicare, distinguere e dunque fare una scelta. “Krisis” è scelta. E nella scelta si cela nello stesso tempo sia il pericolo che l’opportunità. Il tempo di crisi deve essere un tempo di riflessione e crescita, di scelte che bisogna fare, volenti o nolenti. Di decisioni forti.

Se dovessi trarre un bilancio dai due anni passati nell’ultima azienda, lo etichetterei con un “abbastanza positivo”. Ho imparato tanto ma mi sono sentito molte volte sfruttato come succede in Italia a tanti giovani. Purtroppo più dai e più si pretende. E quindi mi sono trovato nella spiacevole situazione che ci si aspettava sempre tanto ed il meglio da me. È ciò di cui ho sempre sofferto nella vita. La pretesa. O meglio l’attesa incondizionata. C’è chi si aspetta cose da me. Ma anche io mi aspetto un qualcosa. A volte anche un semplice e piccolo complimento.

Soprattutto in questo periodo.

Aspetto il lavoro. Mercoledì 9 gennaio avrò l’ultimo colloquio con una importante multinazionale dopodiché tirerò le somme della mia vita nei primi tre mesi a Berlino.

Aspetto l’amore. Quello vero, puro, incondizionato. Quello che ti fa tremare le gambe e vibrare il cuore. Quello che si cerca, si trova, si nasconde, esplode e poi ti fa sognare. “Si… sarà un Natale molto strano per me. La penso esattamente come te, il Natale è un momento da passare con chi ti fa stare bene… E per me non sarà una grande emozione quest’anno. Per me il Natale è già passato… questa settimana trascorsa con te. Non sono in grado di descriverti quanto sia piacevole averti al mio fianco, guardarti sorridere, giocare e scambiarmi sguardi complici. Da domani o meglio già da una mezz’ora sono un poco più triste perché ho l’impressione che questa memoria felice resterà in quell’angolo del mio cuore destinato ai momenti e persone che ho voluto più di ogni altra cosa ma che inevitabilmente ho poi lasciato fuggire. Non voglio fare questo sbaglio con te… Ho una stramaledetta voglia matta di viverti…” È stata questa la mia risposta! Queste sono state le mie parole a chi, da persona speciale, mi augurava un buon natale. Queste sono state le mie parole, aspettando l’amore.

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Una musica assordante Hardcore/Techno. Fin quando ha suonato Jorg le cose andavano meglio perché ha una buona facoltà di mixare il genere con colonne sonore di film e ballate old style anni Novanta. Ma dalle due e mezza in poi il KILI Club, nella notte di Natale, si è riempito di gente desiderosa di vivere tre o quattro ore con un martello pneumatico nelle orecchie. “La maggior parte di loro sono strafatti di roba chimica” mi dice Jorg e mi aiuta a capire: mi mostra i visi, i movimenti degli occhi, l’oscillare del corpo e le espressioni tipiche di chi assume Ecstasy, MDMA, anfetamine di vario genere, l’acido o LSD, eroina o cocaina. È tutto un colore, a volte sono come i coriandoli. Ma si chiamano pasticche. Sono automi senza umore. Senza sonno. Senza fame. Bevono solo. Sembra quasi non abbiano cervello. Si sentono i colori, si colorano i suoni, si vedono gli odori. Provo a parlare con alcune persone in questa tetra sala da film horror ma in risposta ottengo solo alcuni versi ed una sorta di risposta in non so che idioma. Non ci capisco quasi nulla io di droghe.

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La mia notte di Natale si spegne in questo complesso di tre locali in Friedrichshain sud, sulla Wesenweg. Si tratta attualmente di una location preferita dai berlinesi doc perché non tanto conosciuta come Revaler Strasse. Jorg mi dice che fino a qualche anno fa i locali di Revaler Strasse erano i più frequentati: economici e non tanto conosciuti dai turisti o studenti. Poi è cambiato. Ed ora lui con gli amici si sposta in questi club underground in quartieri un po’ più periferici ma facilmente raggiungibili a piedi. Sono dieci minuti da casa nostra. Nei suoi pezzi ci sono anche le sonorità indiane. Quelle sonorità che ha apprezzato durante i suoi tre viaggi nella terra asiatica. La mia notte di Natale è cominciata alle undici, dopo una intera giornata in casa e con un messaggio “Mary kiss my ass”. Strano modo inglese di augurare il buon Natale.

Non mi sono mai sentito così solo e malinconicamente assente. Per me i giorni di Natale sono sempre stati speciali, circondato da tanti amici e familiari. Ma quest’anno no. La vigilia l’ho trascorsa a casa di Chiara. Chiara Rossi. Uno dei cognomi più diffusi in Italia. Il cognome.

Chiara l’ho conosciuta nel calderone virtuale di Facebook. In uno i quei forum di Italiani a Berlino che ho consultato prima di partire. Siate sempre cauti nell’affidarvi ai forum. La vita è un imprevisto. Si gioca con fortuna, azzardo e coraggio  e quindi non vi affidate troppo a ciò che dicono gli altri. Scrissi in un post che cercavo una stanza a Berlino. E Chiara subito dopo lo commentò scrivendo che anche lei era alla ricerca si una sistemazione. Era fine settembre. E così per provocare, scrissi, forse lo ammetto, un po’ da italiano presuntuoso, “Allora due stanze per favore”. Mi arrivarono commenti di ogni tipo: ricordo ancora un certo Luca che mi scrisse di starmene in Italia, di quanto fosse difficile trovare casa a Berlino, la lingua, l’adattamento e l’integrazione con i tedeschi. Non gli ho ancora risposto: ma gli vorrei dire che in una settimana ad ottobre ho trovato casa, ho cominciato il corso di tedesco ed ho anche avuto la chiamata per il colloquio nella multinazionale. Gliel’avrei voluto scrivere ma ho lasciato stare. E per di più vivo con due tedeschi, praticando di conseguenza la lingua tutti i giorni. Ci sono molti fenomeni in giro che devono sempre distruggere le speranze delle persone. Che non siano ascoltati!

Chiara è buona. Mi sembra l’aggettivo perfetto per Chiara. Buona, ingenua e tremendamente sognatrice. Ama incondizionatamente. E rispetta le persone. È davvero una bella scoperta in questa eccentrica Berlino. Ha vissuto tre anni a Barcellona facendo la cameriera ed indossa ancora quel bel sorriso del sud del mondo. Mi piace tanto la sua amicizia. Mi mette serenità. 29 anni, bassina e magrolina, ha un bel trascorso alle spalle. Ha lasciato l’amicizia per l’innamoramento, ha trovato l’amore ed il sesso ma quando ha scelto il primo si è trovata punto e daccapo. Chiara è arrivata un giorno dopo di me. Ha vissuto con me ben quindici giorni di novembre per il solito problema che si ha a Berlino con la ricerca della casa. Ha fatto il corso di tedesco con me. Ha pianto con me ed ha gioito. Le voglio bene. Semplicemente.

Ho trascorso la mia Vigilia di Natale con lei e le sue due coinquiline nate e vissute in Spagna, a Granada, fino ad una certa età e poi trasferitesi in Germania. Ci siamo fatti gli auguri dopo la mezzanotte con il solito brindisi. E non abbiamo osservato il volo di nessun uccello. Abbiamo lasciato l’interpretazione agli auguri Etruschi e Romani. O ai vaticini greci, agli oracoli. Il contadino Gordio divenne re dei Frigi perché l’oracolo di Telmesso vaticinò che il primo uomo ad entrare nella nuova città dei Frigi su un carro trainato da buoi sarebbe dovuto diventare il loro re. Manco a dirlo, un contadino di nome Gordio entrò in città su un carro tirato da buoi, e, in osservanza delle disposizioni dell’oracolo, ne fu fatto re.

Come se si conoscesse già ciò che si augura all’altra persona. Un auspicio, un augurio. Il volere delle divinità. E dico volere. Avremmo bisogno di sentirci tutti delle divinità. E volere. Perseguire imperterriti i nostri obiettivi. Sognare costantemente e tentare, con tutte le forze. Un rito, un po’ come la scarificazione. L’incisione della pelle. Un tatuaggio. Tanti. Oggi si distingue chi non ne ha. È quasi un obbligo. Un modo di essere, un segno distintivo. Anche io ne ho sempre voluti. Ma non ne ho mai fatti. E così ho un album da disegno pieno di frasi, disegni e simboli che avrei voluto tatuare sul mio corpo. Tutte legate a situazioni. Ad esperienze e amori. A viaggi ed amicizie.

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“La mia impressione è che ci siano persone davvero sole in giro per le grandi città, persone che in circostanze come il Natale si ritrovano, si riuniscono perché non hanno altro da fare. Provano a vivere una giornata speciale in date come quella di oggi, che vuoi o non vuoi in qualche modo lo impongono. Il risultato finale ovviamente non è sempre garantito ma almeno è così che ci si rende conto di quello che si ha, di quello si è avuto e di quello che potrebbe avere. È da dire anche che per alcuni, vivere queste “giornate speciali” in modalità “ibrida” e’ la norma e il confronto con qualcos’altro non possono neanche farlo: un’altra ragione per riflettere! Altra riflessione sulle grandi città è che sono piene di gente valida e insoddisfatta, banale come riflessione e molto triste lo so, ma dovevo dirlo. In realtà avrei altre mille considerazioni da fare, ma dal vivo rendono meglio, quindi intanto ti auguro la buonanotte. Domani ho la sveglia alle 5.45 Ciao Fioravante”. Ecco un altro messaggio che posto qui e su cui ragiono da una vita. Per me quest’anno è stato un Natale di crisi. È stato una scelta. Quando non ho più certezze preferisco vivere come un bohemien, un maledetto, e cerco una malinconica solitudine.

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È la seconda volta che trascorro il Natale lontano da casa. La prima volta fu nel 2008. L’anno in cui ho vissuto sulla costa atlantica, a Santiago de Compostela, nella mia esperienza di studio e lavoro all’estero. Ero partito per sei mesi ad ottobre 2007 grazie al progetto Erasmus. Sono rimasto un anno e mezzo, fino a gennaio 2009. Ho condotto i miei studi di ricerca tesi ed ho iniziato prima a lavorare come barman e poi a gestire l’ultimo mese il Fusion Bar di Marcos Rodriguez Romeu. Scrivo il suo nome perché è una di quelle persone che mi troverò sempre vicino. È come Marco Raffaele Celardo, il mio compagno del “Caminando por la vida”. Questo era un tatuaggio che volevo fare, sul piede, ricordando una omonima canzone di Melendi che ha accompagnato le mie avventure in terra iberica. Marcos e Marco sono persone con cui ho condiviso tutto. Sono tornato l’ultima volta in Spagna a maggio scorso per il matrimonio di Marcos. Non potevo mancare. Un tatuaggio è praticamente una cicatrice, un qualcosa di vissuto di passaggio, correndo nella vita e cadendo. Una cicatrice che rimane. Qui in Germania così come in Italia, quasi tutti hanno un tatuaggio. E così anche in Spagna. Ormai è una moda. E non c’è moda che non nasca da un bisogno. Come un sacrificio.

Il Natale del 2008 è stato l’unica occasione, prima di quest’anno, in cui ho trascorso il periodo di Natale da solo. O meglio lontano dalla mia famiglia. Ero con Andrea allora. La frequentavo. Allora aveva ventitré anni lei. Colombiana, per studio a Santiago. Oggi è un’avvocatessa a Bogotà. La sento ogni tanto. Capelli corti fino alle spalle, castano/rossicci, bel sorriso, di quelli che esprime dolcezza e sensualità al punto giusto. L’ho frequentata per un paio di mesi. Poi ognuno in patria. Io in Italia, lei in Colombia. Ero preso da lei. Molto. Ricordo i nostri discorsi con piacere, le nostre cene in giro per Santiago, le nostre notti. Il Natale lo passammo insieme mangiando pesce in Rua do Franco. Quel Natale fu molto più carino rispetto a quello trascorso quest’anno.

Come la coerenza si muove in blocco, un tuttuno con la persona e non può essere divisa perché è integerrima, così mi muovo io. I tedeschi sono coerenti. Si divide tutto: italiani e francesi abituati a pagare con le donne quando si esce qui non vanno bene. Le donne tedesche non vogliono che si paghi per loro. Ma non tutte ovviamente. La vedono una cosa strana: alcune apprezzano altre ti bruciano la prima volta che lo fai. Questi tedeschi non avrebbero nessuna chance con le donne italiane: siete in una discoteca, conoscete un ragazzo tedesco, cosa già difficile se non vi avvicinate voi. Le ragazze tedesche ti guardano solo se le piaci da subito, ti sorridono e si avvicinano. Fanno tutto loro. E magari ci vai a letto anche la prima sera. Se non ti guardano e non sorridono è inutile che imperterrito ci vai vicino e come una zecca cavallina continui a ripetere quanto sia bella e quanto ti piacerebbe conoscerla o magari uscirci il giorno dopo. Inutile. Devi piacerle. Di primo acchito.

Calvo, secco e peloso. Una scimmia. Vizioso e impenitente. Per la splendida e piccola Maria, “bello e docce”, con due c per sottolinearlo. Intraprendente per altri. Un coglione superficiale per altri ancora. E di scimmie ne faccio la collezione: tanti peluche, statuette, spille. L’ultima cosa che ho comprato è stata una spilla della serie dei “mostri di Ila”. Ilaria l’ho conosciuta ad un mercatino al coperto in Grunberger Strasse. Sono mostri dalle facce simpatiche dai tanti colori, come le pasticche, come i coriandoli, come un bancone della frutta, realizzati a mano. Sono rimasto subito colpito. E mi sono comprato la scimmia. Le seconda scimmia invece mi è stata regalata qualche giorno fa: fatta con lo spago nero ora alberga nel taschino della mia giacca Corneliani.

Ho festeggiato i miei trenta anni bevendo da “Aspettando Filippo” con la gente dell’ultima ora, le persone conosciute negli ultimi due mesi, tra cui qualcuno con cui ho stretto un rapporto più saldo e sincero e qualcuno che nemmeno conosco. Dopo siamo andati tutti insieme prima all’About Blank e poi gli irriducibili al Rosi’s, per stare insieme fino al mattino. Ed eccoli qui i miei anni. Trenta anni ben vissuti, pieni di esperienze, in cui ho ballato, cantato, sorriso tanto e pianto allo stesso modo. Sono stato criticato, elogiato, odiato e amato. Ma di una cosa sono certo: ho sempre fatto le mie scelte in base a ciò che mi sussurrava il cuore, a volte come un abile attore, vivendo intensamente ogni emozione e molto spesso immaginandomi in un film. Il film della mia vita. Un film in cui non ci si sente mai vecchi perché si è perennemente in cerca di qualcosa.

Ho sempre amato le sfide. Sono lo stimolo giusto a fare meglio. Sempre. Ad inseguire ciò che in un determinato momento della vita si crede sia la felicità. Di passaggio. Provvisoria. Ma in quel momento è la copia esatta della felicità. Quando penso alla perseveranza ed intraprendenza penso alla sfida e penso agli scogli in un mare, alle rocce di un fiume al termine di una cascata, alle coste rocciose del Gran Canyon. Penso all’acqua che imperterrita, continua, scava poco a poco la roccia. Ogni giorno. Costante.

È uno stimolo a fare meglio. Si prendono esempi, si ammirano persone e personaggi, padri e fratelli, e si cerca di imitarli. Forse emularli. Cercando di fare pari o meglio. Di riuscire. Inseguendo la propria  strada, a volte svoltando per accorciare, a volte sbagliando. Una emulazione che porta a competere, a gettarsi nella mischia e a scegliere.

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Nella crisi c’è competizione massima perché c’è bisogno di essere primi, i migliori. Di prevalere. Di sciogliere il nodo gordiano. Quello che Alessandro Magno, lanciato verso il dominio dell’Asia nel 333 a.C., tranciò con la sua spada. Sfidando qualunque profezia, con energia, forza e costanza. Osando. Pensando al suo futuro e non abbandonando mai il suo grandioso progetto. Non temendo nulla.

Ed è questo il mio augurio per il nuovo anno. Un augurio che però faccio solo a me: mi auguro di essere affamato e sempre in cerca di qualcosa che mi faccia osare in ogni momento di crisi. Georg Cristoph Lichtenberg diceva che “il mese di Gennaio è quello in cui si fanno gli auguri ai propri amici. Gli altri mesi sono quelli in cui gi auguri non si realizzano”. È  questo motivo per cui gli auguri me li faccio da solo. Non solo di buon anno ma anche per il mio trentesimo genetliaco.

“Auguri Fioravante”.

Fioravante Conte

Il sarracino ha in mente:

Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha le prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera che finisca priva di applausi (Charlie Chaplin)

Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare e non temete niente (Rita Levi Montalcini)

Questa voce è stata pubblicata il gennaio 6, 2013 alle 6:49 PM. È archiviata in Amore, Cambiamento, Città/Paese, Crisi, Droga, Fioravante Conte, Interculturalità, NAtale con tag , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Segui tutti i commenti qui con il feed RSS di questo articolo.

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